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Primo controcanto dedicato a Rosa Oliva e a Costantino Mortati.



Il 9 febbraio di 61 anni fa succede una cosa importante: con la legge 66 del 1963, il Parlamento stabilisce la parità effettiva tra uomini e donne nell’accesso ai pubblici uffici.

 

Benché fossero trascorsi 15 anni dalla promulgazione della Costituzione che quella parità l’aveva sancita, fino al 9 febbraio del 1963 la capacità giuridica delle donne era definita e limitata da un odioso articolo di una legge fascista del 1919.

 

L’odioso articolo 7 recitava così: “Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto… quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l'esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato…”

 

Bidella sì, insegnante nì, prefetto no, magistrato no, militare no.

 

La legge si inseriva perfettamente nel panorama normativo fascista: uno stillicidio di provvedimenti con cui si limitava la presenza delle donne in tutti gli ambiti.

 

Nella scuola ad esempio, il settore di massimo impiego delle donne, un corredo di regi decreti[1] impediva loro l’assunzione del ruolo di preside e le escludeva dall’insegnamento della storia, filosofia ed economia nei licei classici, scientifici e negli istituti tecnici consentendolo solo - coup de théâtre - negli istituti magistrali.

Come a dire: giacché (come aveva sostenuto Hegel[2]) la donna è inabile alle scienze e alla speculazione concettuale, meglio che stia alla larga da luoghi educativi dove queste propensioni e attitudini sono necessarie; se proprio insiste, che formi le sue simili: l’insegnamento fatto ad altre donne limitate e confinate nell’agire, farà poco danno.

 

Ma torniamo a noi.

 

Ad abrogare l’odiosa legge fascista del ‘19, il Parlamento Italiano è di fatti costretto.

Costretto da Rosa Oliva e Constatino Mortati.

 

Rosa Oliva è una donna di origini campane: all’epoca dei fatti che racconteremo ha 24 anni e si è appena laureata in Scienze Politiche all’Università La Sapienza.

Ha l’ambizione di entrare in Prefettura, Rosa.

Invia la propria candidatura a un pubblico concorso consapevole di non possedere un requisito imprescindibile, una mancanza incorreggibile.

Non è sorpresa dalla convocazione dell’imbarazzato maresciallo che le comunicherà la sua esclusione dal bando e la plateale, ineludibile motivazione: Rosa non è un uomo.

La sua candidatura viola l’articolo 7 della legge del 1919.

 

Peccato che l’articolo 7 della legge del ‘19 violasse gli articoli 3 e 51 della Costituzione Repubblicana.

Peccato che Rosa lo sapesse e che avesse deciso di fare ricorso.

Peccato che il suo Avvocato (e Professore all’Università) – il grande Constatino Mortati – avesse fatto parte dell’Assemblea dei 75, quelli che la Costituzione Italiana l’avevano scritta.

 

All’ufficiale dello Stato costretto a fare da messo di esclusione, Rosa aveva chiesto solo “Sarebbe così gentile da scrivermi quello che mi ha detto?”.

 

Il povero maresciallo non poteva certo immaginare il seguito che avrebbe preso la faccenda: il precipitato di secoli di pregiudizio misogino sintetizzato nell’imbarazzato pizzino finiranno nelle mani di Costantino Mortati che alla caparbia ex studentessa avrebbe affettuosamente chiesto: “Viene da me come Professore o come Avvocato?”.

 

Non poteva aver dimenticato il Prof Mortati, il tenore della discussione in Assemblea Costituente. Quegli articoli 3 e 51 della Costituzione (e non solo) erano stati oggetto di un dibattito articolato e a tratti grottesco, in particolare in relazione all’accesso delle donne alla carriera di magistrato.

 

Non poteva aver dimenticato la seduta del settembre del 1946 in cui in una appassionata tenzone, un certo onorevole Romano aveva dichiarato: La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche”.

Aveva  studiato l’Onorevole… tra gli altri si era ispirato ad Aristotele e a Rousseau[3].

 

Non poteva aver dimenticato le parole dell’On Cappi che aveva affermato “la ragione della diffusa ostilità nella maggioranza di fronte a una donna giudicante sta nella prevalenza che nelle donne ha il sentimento sul raziocinio”.

Un altro grande studioso di filosofia e psicologia, di certo anch’egli appassionato di Aristotele e di Freud che avevano sostenuto più o meno lo stesso.


Non poteva aver dimenticato nemmeno l’Onorevole Molé, quello a cui era capitato il destino più bizzarro a pensarci a posteriori. “L’uguaglianza non può essere garantita, essendo noto già nel diritto romano… che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro, così aveva detto l’Onorevole.


Detto tra noi: mi piace immaginare frizzanti le discussioni tra Molé e la sua sposa Lucrezia de Francesco, ironicamente prima preside donna d'Italia.

Se li ricordava eccome quei dibattiti, Mortati e non gli era sfuggito da statista, uomo di legge e di Stato che la vicenda di Rosa avrebbe segnato uno spartiacque importante nella storia dei diritti delle donne.


Il 13 Maggio 1960 la Consulta dichiarò valido il ricorso presentato da Rosa e illegittima la sua esclusione al concorso: l’effetto immediato della pronuncia della Corte riguardò solamente le prefetture; servì poi un ulteriore provvedimento, la legge numero 66 approvata dal Parlamento il 9 febbraio 1963, per consentire alle donne l’accesso a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici (compresa la Magistratura) e per decretare la definitiva cremazione della legge fascista del 1919.


La storia di Rosa Oliva è emblematica di moltissime riflessioni. Qui – senza alcuna ambizione moralistica ma con solo spirito di condivisione e dibattito – metto in comune tre pensieri sperando di aprire ponti di dialogo in tutte le direzioni possibili.


Uno: la legge non basta. Culmine formale dell’evoluzione della società, le leggi necessitano di movimento, di lotta, di dibattito, e – primariamente - di cultura.


Due: nessuna minoranza ha successo nella rivendicazione dei propri diritti se rimane chiusa in sé stessa. Nella storia che abbiamo raccontato oggi e in molte di quelle dei prossimi mesi, l’alleanza con gli uomini è stata dirimente.


Tre: la forma di coraggio più audace è quella che sfida il “sistema”, qualsiasi esso sia. Sfidare il sistema significa sfidare l’articolazione di equilibri, status quo, interessi e convinzioni cristallizzati. Il potere – per propria natura – ambisce alla propria preservazione e permanenza.


Il coraggio di scalfirlo è quello di “spostare i millenni”, dare una spallata alle sedimentazioni di una lunga storia.


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[1] I decreti sono: il R.D. 1054/1923 e il RD 899/1940 impedivano alle donne di essere presidi di scuola o istituti di istruzione media; il RD 2480/1926 escludeva le donne dall’insegnamento della storia, filosofia ed economia nei licei classici, scientifici e dagli istituti tecnici, mentre lo permetteva alle magistrali.

 

[2] “Le donne possono essere ben colte ma non son fatte per le scienze, per la filosofia e per cert produzioni dell’arte che richiedono l’universale. Le donne possono avere fantasiose trovate, gusto, leggiadria, ma non hanno l’ideale”

 

[3] “Le donne sono escluse dal governo della polis perché non hanno capacità deliberante” (boleutikon… una mezza capacità deliberante) - Aristotele

Quand’anche possedesse dei talenti effettivi, la sua dignità consiste nell’essere ignorata, la sua gloria risiede nella stima del proprio marito, i suoi piaceri albergano nella felicità della famiglia - Rousseau

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